Le catene del valore lineari con mercati e di nuove tecnologie che cambiano e si adottano a un ritmo regolare sono il mondo di ieri, da prima della pandemia, da prima che la linearità mostrasse tutta la sua fragilità. È l’economia degli ecosistemi che le aziende industriali creano e che vanno oltre le partnership la chiave di volta per reagire al nuovo contesto.
Fino a qualche anno fa, la leadership dell’industria costruiva le strategie su una crescita e un progresso tecnologico regolari. Questo fino a quando certe tecnologie, in un crescendo, non hanno cominciato a cambiare radicalmente i modelli di business e la maniera di produrre, di disegnare i prodotti, di pianificare. Trovare modi di stare nel mercato con più agilità, reattività, fiducia e resilienza era diventata una necessità nell’industria già prima della pandemia.
Il report The Future of Industry Ecosystems di IDC è una prima indagine sull’economia degli ecosistemi industriali cui le aziende aderiscono per restare competitive, avanzate nella tecnologia e per crescere, anche attingendo ad altri settori. Per aiutare i decisori nelle aziende a individuare il percorso ottimale per sfruttare le opportunità di una economia sempre più basata su ecosistemi, IDC ha definito, sulla base di una vasta ricerca nella manifattura, quattro tipologie di sistemi. (vedi prossimo articolo).
Ce lo spiega Lorenzo Veronesi, Research Manager di IDC Manufacturing Insights, EMEA.
Perché il rapporto, perché adesso?
Già prima della pandemia osservavamo un fenomeno che si è protratto nel 2020: una importante, grande trasformazione della catena del valore. Fino ad allora il modello tradizionale era di tipo lineare: un fornitore, un produttore, un distributore, un cliente finale. La crisi del 2020 lo ha alterato ancora di più con repentini problemi di approvvigionamento dei materiali o di capacita o di mercato. Qualche azienda ha visto da un giorno all’altro crollarne metà mentre l’altra metà si surriscaldava, come è successo a un nostro cliente del settore cartario: la domanda business precipitava – uffici e fabbriche erano chiusi – mentre andava alle stelle quella consumer.
A marzo-aprile 2020, molte imprese hanno capito che dovevano rendersi capaci di affrontare alterazioni molto rapide: cambiare fornitore o distributore se uno non ce la faceva perché riforniva troppi clienti o alzava troppo i prezzi, reindirizzare le produzioni o ripensare le gamme di prodotti, ridimensionare incrementando o decrementando la capacita produttiva, cercarsi nuovi clienti.
Le imprese si sono trovate davanti a due problemi. Il primo è che non avevano un modo agile per collaborare con fornitori, partner commerciali, distributori e clienti o, in altre parole, che dovevano superare il tradizionale modello lineare. Il secondo è che non avevano le informazioni necessarie per prendere decisioni rapide, per esempio, sulla fattibilità di una strategia nel lungo termine. Le aziende che le avevano, perché erano più avanti nell’uso delle tecnologie, hanno superato il periodo del Covid molto meglio.
L’idea che una società manifatturiera produca con un fornitore per ogni elemento della linea, lo venda tramite un distributore…: questo è il mondo vecchio che, più che altro, sta diventando molto, molto rischioso e difficile da sostenere nel lungo termine.
Quello futuro impone che, al bisogno, si sfrutti l’innovazione e si collabori con società anche al di fuori del proprio settore: con un portfolio fornitori, distributori e clienti e una rete di fabbriche con le quali adeguare la produzione in modo più agile.
Dunque abbiamo osservato nel mondo industriale una trasformazione trainata dal digitale nella quale molte aziende si sono collegate in rete con la tendenza a formare degli ecosistemi. Queste aziende, al fine di essere più agili e reattive alle condizioni del mercato, mostrano una nuova apertura agli ecosistemi in varie aree, a partire dall’innovazione prodotto. È una grande trasformazione dalla quale non si torna indietro, è un trend strutturale.
Il rapporto descrive quattro modelli di ecosistemi (in altra pagina) ma tutto, anche la creazione di ecosistemi, ruota attorno ai dati. In questo momento, tuttavia, è più forte che mai la spinta non solo a proteggerne al meglio l’utilizzo e lo storage, indispensabile, ma anche a porre delimitazioni regionali. Questo può difficoltare il trend?
Nel passato le informazioni sensibili, come i contratti delle Hr o di altri tipi avevano regole di accesso molto restrittive. Poi è arrivato l’IoT con ogni tipo di dati sulle macchine. Per ricavarne maggiori risultati, le aziende sì sono adoperate per creare strategie per la collaborazione o la condivisione dei dati.
Ci sono vari modelli: qualche cliente sarà felice di condividerli affinché il fornitore si faccia carico della manutenzione o delle analytics per migliorare la performance. Altri preferiscono tenere ben stretti quelli che arrivano dal plant. L’IoT offre la possibilità di creare reti per lo scambio di questo tipo di data. In molti casi i clienti capiscono che possono rivenderli ai produttori per migliorare la performance delle macchine.
Viceversa, osserviamo anche spesso aziende che comprano molto macchinario ma non sono pronte ad agire sulla base dei dati che raccolgono.
Si torna alla grande questione di prima: per integrarsi in maniera più agile nella propria catena del valore e negli ecosistemi, le imprese dell’industria hanno bisogno di informazioni quali quelle che possono trare da un bacino di dati al quale contribuiscono altre aziende dello stesso comparto, o addirittura di altri, in un modello a network.
Alcune di queste iniziative sono ancora nella fase pilota, ma in generale vediamo che i dati stanno esplodendo.
Molte imprese del manufacturing hanno acquistato negli ultimi anni una grande quantità di licenze per tecnologie differenti e non sempre sono riuscite a integrarle bene, forse ancora meno con gli asset più tradizionali che stanno nei plant, vanificando così la potenzialità dei dati. Non c’è un paradosso nel quale le grandi aziende hanno più risorse che le pmi, ma le piccole invece sono più agili, sono nate dalla tecnologia, la usano ma non la comprano…?
Nelle imprese tradizionali, grandi o piccole, un semplice accumulo di nuove tecnologie crea aziende dispendiose: non paga investire in nuove tecnologie senza la giusta mentalità. È come comprare un’auto senza avere le strade.
Anche nelle grandi aziende spesso si mettono in piedi innumerevoli progetti che poi non sono portati avanti, perché non si sta realizzando in parallelo il cambiamento culturale. Inoltre, in Italia, per esempio, molte aziende hanno investito molto grazie alle politiche per l’Industria 4.0, ma il problema è che, succede talvolta, gli incentivi finiscono per portare a un mero acquisto di nuovi macchinari o a un rinnovamento degli asset.
Industria 4.0, sappiamo, non vuol dire solo questo, ma la capacità di sfruttare i dati che le macchine generano per cambiare il modo di lavorare. I manager devono essere preparati ad agire sulla base di ciò che i dati dicono loro. Abbiamo parlato con moltissime aziende solo per scoprire che non sanno come utilizzarli o trarne beneficio. Questi sono concetti che non si possono imporre o insegnare, ma che devono emergere dall’agilizzazione dell’impresa, soprattutto ora che l’informazione è cosi abbondante e disponibile.
E qual è l’impatto di queste difficoltà sul loro futuro?
Glielo illustro con i risultati di una nostra vasta ricerca. Nel 2015 abbiamo cominciato a monitorare la performance di due gruppi di aziende, uno che abbiamo definito digitale, l’altro non digitale. Negli anni abbiamo osservato che si creava molto chiaramente una biforcazione, un gap crescente tra i due gruppi. Quelle digitali erano più avanti nella trasformazione digitale e facevano molto meglio delle altre sul mercato.
Nel caso delle pmi, la differenza si amplificava, nel senso e quelle non digitali alla lunga tendevano a sparire. In altre parole, a livello di multinazionali, l’impatto è minore, mentre a livello delle più piccole, c’è un’intera generazione di aziende che, ci dispiace dirlo, hanno prospettive tutt’altro che buone.
In quale modo arrivano le aziende all’adozione di nuove tecnologie?
Ci arrivano lungo due percorsi. Il primo è la ricerca di una soluzione tecnologica o di tecnologie innovative per risolvere un problema nella propria attività o mettere in essere un processo per individuare e ricercare le nuove tecnologie per utilizzarle quando si apre una opportunità nel mercato. L’altro è quello delle aziende che esplorano diverse tecnologie per costruirci dei casi d’uso.
Nella maggior parte dei casi dipende da come è evoluta l’azienda e, soprattutto, se ha una visione a lungo termine, ossia, se i manager si sanno chiedere, sulla base delle tecnologie adottate, quale sarà il panorama da lì a cinque anni e se si sanno preparare alla prospettiva.
Questo vuol dire esperimentare con un certo numero di tecnologie per abbandonare quelle che si rivelano inefficaci, mantenendo però un piede nelle altre in modo da avere già un’esperienza se il momento giusto arriva.
Le aziende con mentalità meno innovativa, tendono ad aspettare finché la tecnologia è evoluta o più diffusa – e questa è la strada sbagliata. Quando un fenomeno tecnologico arriva sulle pagine dei giornali, nel 90% dei casi è già troppo tardi: le aziende più innovative hanno già quattro o più anni di esperienza in quel campo. Succede in continuazione.
Alcune aziende di dimensioni medie, per esempio in Germania il Mittelstand, si salvano perché sono costrette ad adeguarsi quanto a tecnologia al livello delle aziende più grandi clienti se vogliono restare fornitori. Così si crea una trasmissione virtuosa di tecnologia, dalle grandi via via a quelle più piccole. E altrove?
In Germania, il Mittelstand è trainato dalle grandi società, ThyssenKrupp, Bmw, Porsche, che non permettono ai loro fornitori alcunché di approssimativo: se vogliono il cliente, devono avere fabbriche digitalizzate al più alto livello. Sono molto esigenti, innovano e impongono l’innovazione ai fornitori, anche se l’atteggiamento di questi ultimi tende al conservatore. È un grande incentivo.
In Italia, solo pochi settori fanno parte di catene del valore globali. Nella manifattura e nell’automotive ci sono imprese industriali molto avanzate e parte di catene del valore globali con clienti molto esigenti: non possono non tenerne il ritmo.
Le aziende che invece lavorano in ambiti locali, che rimandano i cambiamenti a quando il mercato busserà alla loro porta, saranno totalmente impreparate.
In Scandinavia, nei Paesi Bassi e persino nel Regno Unito, nonostante qui la valutazione sia più difficile a causa di Brexit, molte imprese stanno avendo un grandissimo successo. Hanno un approccio molto più aperto, sono native digitali, molto avanzate, molto agili, in grado di adottare in tempo breve le migliori tecnologie e di alterare lo status quo del mercato.
È emerso anche da un nostro report sui Paesi Bassi della primavera scorsa: ci sono imprese piccole che trovano fantastiche soluzioni e proposte di grande valore in ogni settore.
In sostanza: il digitale conta, le imprese digitali fanno meglio delle altre e tra le pmi l’effetto è amplificato. Tra le piccole, quelle digitali vanno molto bene e quelle non digitali rischiano di chiudere. É quello che vediamo nel mercato.
È in Italia?
Il caso italiano è molto specifico, perché molte pmi sono aziende di famiglia, il che non è una connotazione negativa, ma sì un problema quando a gestirle sono persone meno motivate del fondatore. Talvolta i figli si rivelano bravissimi, altre volte no, e diventa un problema di management. Molte tra loro non hanno ancora messo a fuoco il bisogno di investire in tecnologia e che non si tratta solo di acquistarla, ma di cambiare totalmente mentalità.
Ad alcune società occorrono varie generazioni, intese in termini di business, ossia cinque-dieci anni: tocca aspettare pensionamenti, assumere nuove persone… non sono cambiamenti rapidi.
Da una nostra ricerca di qualche anno fa risultava che dei circa 150 distretti industriali riconosciuti ufficialmente dall’Istat, 110 erano attivi e circa 20 erano fiorenti e in grado di produrre innovazioni significative o attivamente aperti alle innovazioni digitali.
Conosco molto bene il mercato italiano. È un risultato che fa alquanto paura, perché ci dice che un alto numero di pmi o molte microsocietà in Italia, in questa fase della rivoluzione digitale, sono condannate, perse, anche se non ne sono ancora consapevoli: non sono in grado di mantenere il ritmo della rivoluzione digitale.
Quindi è una questione di mentalità, di cultura, o anche di ambiente? Per esempio, in Europa non ci sono grandi società della tecnologia capaci di alterare continuamente il panorama tecnologico sfidando le altre.
In Italia ci sono vari problemi: l’ecosistema non è quello ideale in termini dell’innovazione che arriva dalle università o del talento. Il mercato del lavoro è rigido, la tassazione alta… ci sono molti limiti. Al tempo stesso – lo abbiamo verificato con una ricerca sulle imprese di successo e la produttività – molte pmi italiane, quelle da circa 100 addetti che competono nel mercato internazionale, sono super produttive. Per competere nel mercato internazionale con un ecosistema poco collaborativo, bisogna davvero essere super produttivi, essere davvero imprese fantastiche. Queste non hanno bisogno di un particolare sostegno, ma sì, l’ecosistema deve cambiare.
L’Europa è un mercato complicato, difficile in generale, con molti silos. Ci sono grandi società di successo globale come Nokia, Ericsson, Siemens, ma in generale nell’ambito delle applicazioni non c’è una Google o una Microsoft europee o un’hyperscaler come Amazon. Ciò rende il contesto europeo leggermente differente e rallenta un po’ l’adozione di nuove tecnologie.
D’altra parte, l’Europa è leader, tra altre cose, nel modello Industria 4.0 dove ha aperto un intero nuovo mercato. L’Italia e la Germania non sono seconde a nessuno e sono leader di mercato nella produzione di strumenti industriali connessi e di macchinari industriali.
Qual è la strada verso ecosistemi che sostengano o diano una spinta alla digitalizzazione?
Intanto, l’accesso alla tecnologia non è più limitato come lo era prima del cloud. La tecnologia fa superare certe difficoltà del passato. In passato, solo le grandi aziende potevano permettersi sistemi innovativi come l’Erp, che era quasi un lusso. Ora un Erp nel cloud è qualcosa di molto più accessibile. Inoltre, molte formule di utilizzo non prevedono grandi investimenti iniziali. Si possono avere a consumo nel cloud soluzioni di intelligenza artificiale o per l’automazione o d’intelligence di mercato, ecc. È il modello di molte start-up.
È una grande opportunità per le aziende piccole che, però, devono avere la mentalità giusta. La nuova apertura agli ecosistemi è qui per restare e le aziende che non la coglieranno pagheranno un prezzo molto alto.
Parliamo di una trasformazione strutturale nella quale le imprese della manifattura diventano molto più agili e portate alla collaborazione e all’operatività in un modello di ecosistema. Il mondo lineare di prima è troppo rischioso ormai. E non è solo una questione di fragilità della tradizionale catena del valore, ma anche di complessità delle tecnologie che ha un impatto sui prodotti, sulle filiere della fornitura, sulla digitalizzazione, sull’ esperienza digitale e sui cambiamenti del mercato.