Che cosa è l’intelligenza artificiale? Ecco una domanda che i congressisti a Washington avrebbero dovuto porre a Mark Zuckerberg: lui ha continuato a menzionare l’AI senza far presa.
La scena: una cinquantina di congressisti di età media 50 anni in semicerchio su una pedana; di fronte, il trentenne che a 19 anni ha fondato una delle più ricche società al mondo. Il divario si è riflesso pure nella comprensione dei legislatori su come funziona il colosso digitale che vogliono regolamentare, ma le 10 lunghe ore dell’interrogazione hanno anche esposto alcune questioni “filosofiche” e tecniche delle società che sbaragliano i concetti di settore e categoria tra cui: Di chi è il contenuto? Chi ne stabilisce la neutralità e la correttezza politica, religiosa, ecc. – tanto più quando di mezzo ci sono culture del tutto diverse?
In breve, due visioni si sono confrontate e non sempre lungo le linee tradizionali: da una parte Zuckerberg-Facebook (FB) che hanno come missione “creare comunità”, dall’altra chi ritiene FB una macchina che fa soldi costringendo ingannevolmente gli utenti a cedere i propri dati; da una parte FB come opera summa della creatività e della libertà del capitalismo americano, dall’altra chi crede che crescendo così in fretta abbia “seminato la legge” e ora faccia quello che vuole; da una parte Zuckerberg come paladino del tradizionale modello di business dei media (contenuto in cambio di pubblicità), dall’altra chi lo ritiene inadeguato per un onnipresente Grande fratello.
Zuckerberg ha ricevuto domande e accuse su vendita di dati, sull’essere monopolista e co– responsabile dell’epidemia di oppioidi negli Usa, sull’aver favorito la campagna di Trump, sull’aver favorito quella di Clinton, su censura contro gli antiabortisti, su scarsa inclusione delle minoranze… E sulla raccolta di dati anche di chi non ha un profilo FB attraverso i like e i condividi contenuti in centinaia di milioni di pagine internet. È su questo punto, sulla lentezza della reazione al furto di Cambridge Analytica e sulla possibilità che se ne scoprano altre CA – forse tante, che Zuckerberg è stato colto in contropiede, si è assunto la responsabilità e si è scusato ripetutamente.
Ha spiegato che FB dai tempi di Harvard è cresciuta con il paradigma della reattività: FB propone una nuova soluzione per aumentare l’interconnessione alla quale gli utenti aderiscono. Se si segnalano problemi – contenuto offensivo, violento, terroristico, politicamente ingannevole o addirittura furto di dati personali – FB reagisce con soluzioni digitali, pubblicazione di mea culpa e regole d’uso più severe.
Zuckerberg ha risposto con frasi semplici e mai spazientito – nonostante le interruzioni e i “Risponda sì o no!” – continuando a ripetere: FB non vende dati agli inserzionisti ma dà l’opportunità di pubblicizzare un prodotto presso un gruppo di persone delimitato dalle loro caratteristiche; FB ci arriva filtrando i dati che ha (e quelli che fino a poco tempo fa acquistava da terzi) con algoritmi; che i dati personali che ha nei server appartengono a chi aderisce e che ognuno decide il livello di esposizione pubblica che desidera.
I congressisti hanno mostrato una certa confusione sulle differenze tra fornitori di connettività internet (Isp) e piattaforme social media, tra FB e Messenger, WhatsApp, Instagram, Twitter e Google e anche sulla natura di FB quando si è parlato di monopolio, quasi fosse una commodity.
“L’americano medio utilizza ogni giorno otto diverse app di social media”, ha ripetuto Zuckerberg, implicitamente affermando che nessuno è obbligato a iscriversi a FB e rispondendo al congressista che aveva tuonato “Chi ci proteggerà da FB?”. Quando poi un altro ha enfatizzato: “Perché non possiamo spezzarla come si è fatto con le automobili?” la distanza tra Washington DC e Menlo Park è apparsa un vero continente.
Tutto ciò, in ogni caso, ha fatto emergere le sfide e le difficoltà per individuare una via virtuosa e praticabile per tutelare la privacy (molto gettonata la normativa Gdpr della Ue), che non si limiti a replicare “quella dei fornitori di internet” o viceversa vada poco oltre l’autoregolamentazione che Zuckerberg ammette essere stata lasca.
Media company o società tecnologica? FB non produce contenuto, ma lo sfrutta. È il suo modello di business. Come media, FB potrebbe scegliersi una propria linea editoriale, ma sarebbe costretta a stare alle rigide leggi sulla pubblicità per tv e carta stampata, cosa che non vuole. Zuckerberg ha quindi insistito che FB tiene a essere una piattaforma neutrale in materia politica, religiosa… e che è una società della tecnologia.
Resta il fatto che si cammina sul filo di una lama quando si deve “stabilire che cosa sia un discorso d’incitamento all’odio o solo politico”, ha risposto alle domande insistenti sul perché FB non abbia oscurato i siti sgraditi all’una o l’altra parte, e che “lo può fare solo un giudizio umano”. FB sta quindi assumendo 20.000 persone.
Tuttavia, “non ci potrà essere mai un numero sufficiente di persone fisiche in grado di monitorare ogni pezzo di contenuto pubblicato [dai due miliardi di utenti]“. L’unica soluzione è l’intelligenza artificiale e lo dimostra il 99% di successo dell’AI nell’individuare i profili che inneggiano al terrorismo.
Che cosa intende? La capacità dei suoi computer di individuare autonomamente schemi e quindi contenuti dannosi con algoritmi derivati dalla statistica. Si parla (per ora) di macchine programmate per raggiungere uno scopo più che per eseguire un set di istruzioni (vedi già oggi gli assistenti virtuali, l’individuazione della frode bancaria, la cyber sicurezza).
“Ci vorranno ancora 5–10 anni, ma è l’unica strada e per questo stiamo investendo massicciamente”, ha detto Zuckerberg. Quando un certo punto un membro del comitato gli ha chiesto del “cambiamento di algoritmo”, Zuckerberg ha iniziato: “Onorevole, mi lasci spiegarli come abbiamo cambiato l’algoritmo”, ma l’onorevole lo ha subito interrotto, “No grazie, preferisco passare alla prossima domanda”.
Aggiornamento due mesi dopo: il mio punto lo spiega oggi bene il Washington Post: ‘I can understand about 50 percent of the things you say’: How Congress is struggling to get smart on tech.