L’innovazione alimenta la produttività e la produttività la crescita. Per le imprese l’innovazione è garanzia di sopravvivenza: avere una visibilità lungo tutte le sue fasi, dall’utilizzo delle risorse di capitale umano, finanziario e materiale ai risultati, è dunque ciò che permette loro di fare dell’innovazione un pilastro della strategia aziendale. Misurarla, tuttavia, è oggi un compito complesso.
Nel caso Italia, secondo uno studio PwC su un campione di oltre 130 imprese, il 97% delle imprese si dice convinto che l’innovazione, allargando i mercati grazie a nuovi prodotti o servizi, abbia un impatto positivo sui ricavi; il 91% pensa che aiuti a raggiungere obiettivi di efficienza operativa; l’88% che rafforzi il brand e l’82% che aiuti ad attrarre i migliori talenti. Ciononostante , solo il 17% possiede un sistema di metrica per l’innovazione e, tra quelli che lo hanno, la maggior parte deve ancora consolidare il modello.
Per innovare con successo occorre una vision, che è il principale fattore abilitante secondo il 96% delle aziende; mentre l’84% vede come necessario anche un approccio strutturato in grado di gestire tutte le fasi dell’innovazione. Le imprese sanno altrettanto bene quanto, però, che con l’accelerazione della tecnologia non è più sufficiente misurare l’impatto del singolo prodotto o processo. Ora si tratta di misurare anche l’impatto delle “soluzioni” e di come queste sono offerte.
La Sloan School of Management del Mit definisce tre categorie misurabili: 1) l’innovazione nel portafoglio, 2) quella dei progetti e 3) quella insita nel processo stesso d’innovazione. L’Ocse, nel suo Manuale di Oslo 2018, distingue tra quattro tipi d’innovazione misurabile: a) del prodotto o del servizio che cambia o migliora nelle sue componenti, materiali, software, facilità d’uso o altre caratteristiche funzionali; b) del processo di produzione o della fornitura migliorato o rinnovato interamente grazie a cambiamenti significativi nella tecnologia, nei macchinari, nel software; c) del marketing, dal design al packaging passando dal posizionamento e dal prezzo; e d) dell’operatività interna o esterna dell’organizzazione.
A rendere oggi complessa la misura aggregata dell’innovazione concorrono diverse cause. Innanzitutto, le caratteristiche stesse dell’innovazione: se è incrementale; dagli effetti dirompenti – disruptive; da architettura – quando sposta esperienze, capacità o tecnologia su mercati differenti, come succede spesso con i materiali; o radicale – quando apre nuovi settori, cannibalizza altri e offre tecnologie rivoluzionarie (l’esempio più comune qui è quello dell’aeroplano).
In secondo luogo, diversamente che nel passato, oggi è difficile individuare una singola fonte dell’innovazione all’interno di un’azienda o di un settore di un’azienda. Terzo, molte delle attività che concorrono all’innovazione ora sono intangibili, quali l’intelligenza artificiale (Ai), il machine learning (Ml), la realtà aumentata (Ar) o virtuale (Vr), la simulazione e la modellistica. Stando a un campione di imprese intervistato dal World Economic Forum (Wef), è cambiata anche la natura stessa della Ricerca e sviluppo (R&S) rispetto agli ultimi 60 anni.
L’efficacia dei brevetti ne è un buon esempio: quando l’innovazione riguardava un singolo prodotto o processo i brevetti costituivano una tutela sufficiente. Ora che l’innovazione può avvenire nel modello di business, nei servizi o nelle relazioni con l’esterno, come nel caso delle partnership con startup, molte sue istanze restano fuori dall’ombrello della tradizionale proprietà intellettuale. Anzi, parte dell’innovazione ora può verificarsi anche fuori dai tradizionali canali d’investimento in R&S.
Attribuire troppo valore ai numeri può addirittura ostacolare i processi innovativi. È il caso di indicatori come l’investimento che, se visti nel breve termine, possono scoraggiare le innovazioni di natura discontinua o l’assunzione di rischio in generale, anche quando c’è consapevolezza che l’innovazione è intrinsecamente imprevedibile.
Le principali trappole quando si misura l’innovazione sono tre, secondo la Sloan School of Management dell’Mit: i) sopravvalutare o sottovalutare il suo potenziale, ii) trascurare questo potenziale in relazione alla costruzione della strategia aziendale e iii) misurare solo le parti e non l’insieme. I 45 manager di 21 grandi società da loro intervistati hanno espresso frustrazione perché, nonostante un notevole impegno per misurare tutta la filiera dell’innovazione, i risultati sono spesso insoddisfacenti. I motivi sono vari. Talvolta le misurazioni forniscono risultati quantitativi e non qualitativi (non includono, per esempio, le capacità delle figure coinvolte); altre volte l’enfasi è sbilanciata sul breve termine in funzione, per esempio, di ciò che conviene per mandare avanti un progetto; altre ancora perché genera situazioni di conflitto all’interno dell’azienda.
In ogni caso, i team dell’innovazione dipendono dagli indicatori scelti per “provare” il loro valore per l’azienda. Questi possono essere a consuntivo – la R del Roi – quali dati sulle vendite, percentuale dell’investimento rispetto alle vendite, profitti, ritenzione dei clienti, tempo effettivo per raggiungere il pareggio rispetto a quello pianificato; o di input – la I del Roi – quali il numero di progetti in corso o le idee da sviluppare, il portafoglio, il numero di addetti nella R&S, gli investimenti. L’Ocse, per esempio, ha sviluppato un sistema predittivo del valore dell’innovazione nel design che è però ancora in fase sperimentale.
Anche nel “paradosso dell’innovatore” secondo cui le innovazioni a effetto dirompente non hanno mai numeri alti nella prima fase della loro introduzione, gli indicatori di risultato – vendite, redditività, ecc. – possono fuorviare.
Questi indicatori sono poco utili anche quando si tratta di sfide ad alto potenziale che impongono tempi d’incertezza lunghi o il coinvolgimento di un certo numero di stakeholder fin dall’inizio affinché i progetti decollino con credibilità e influenza.
“Non si può gestire ciò che non si misura”, dicono a Viima, consulenti di aziende tra cui L’Oréal e Munich Re, e, infatti, spesso le attività d’innovazione poco visibili si perdono per strada nonostante abbiano un potenziale. “Occorre scegliere con molta attenzione il tipo di indicatori da utilizzare” che, a partire dalla domanda “che cosa occorre alla mia azienda innovare“ dovrebbero includere le capacità – skill, know-how, capitale di conoscenza. In secondo luogo occorre misurare le strutture – organizzative, di processi, di risorse. Terzo, occorre dare un valore alla cultura aziendale, che può avere un peso importante sull’innovazione, misurando per esempio il numero di idee generate dagli addetti o dal management, la partecipazione alle iniziative d’innovazione, il numero di addetti formati per attività innovative. Infine occorre misurare la leadership e la strategia, dando un valore, tra le altre cose, alle scelte e alla pianificazione riuscite e al successo a lungo termine.
Se si considera che il 50% delle società dell’indice S&P 500 odierno potrebbe non esserci più tra dieci anni, stando a qualche esperto, capire quando occorre “reinventarsi”, come nell’articolo dell’Harvard Business Review di quattro anni fa, diventa una questione di vita o morte per le imprese. Il compito, tuttavia, passa spesso in secondo piano a causa del tempo dedicato in primis “alla gestione e alle decisioni quotidiane” e, secondariamente, dalla “mancanza di una visione coerente per il futuro”, dicono le aziende.
All’opposto dell’inerzia c’è il rischio di una “ossessione” riguardo all’allocazione interna delle risorse e delle funzioni, ai clienti o ai dati dell’ambiente esterno. Ciò va a scapito di un reale impegno finanziario per capire e anticipare le forze del cambiamento nel dato settore (solo poche aziende lo fanno); della capacità di anticipare i bisogni dei clienti, meglio se prima delle crisi; o dell’abilità di motivare all’innovazione incentivando la condivisione di esperienze, esperimenti e iniziative.
Anche un’organizzazione a silos – “marketing”, “prodotto”, “ingegneristica” – ostacola la comunicazione e l’agilità e quindi la visibilità sul processo d’innovazione. L’esempio virtuoso citato spesso è Amazon che è organizzata a partire da team autonomi che gestiscono i propri prodotti o linee di business e le relazioni con i partner esterni, mantenendo quindi il polso sulla propria capacità d’innovazione.
Una ricerca del Carnegie Institute of Technology spiega che l’85% del successo finanziario di un’azienda è imputabile alla “ingegneristica delle persone”, vale a dire, alla capacità di comunicare, negoziare e guidare con personalità, e che, sorprendentemente, solo il 15% è attribuibile alle conoscenze tecniche. Con ciò si ritorna alla casella numero uno: all’avere una visione di lungo termine, grazie anche alla capacità di misurare l’innovazione.