Internet ha 50 anni ma molti esperti, legislatori e guru non fanno lo sforzo di distinguere tra internet, social media, piattaforme, “tecnologia” e “algoritmo”, e quando lo fanno, hanno una visione occidentalo-centrica. Certi guru hanno festeggiato la più grande invenzione degli ultimi 50 anni – intesa come invenzione che ha cambiato e sta cambiando la vita di tutti e soprattutto quella dei più svantaggiati del Pianeta – spiegandoci perché Google, Facebook e la Silicon Valley sono “i cattivi”.
Buttare il bambino con l’acqua sporca confonde il pubblico sul fatto che internet è molto di più dei potenti social media e delle sconfinate opportunità economiche che ha creato, soprattutto nel mondo in via di sviluppo.
I rischi e i problemi che pongono i social media e la rete in generale sono reali e molto seri, ma assimilare Mark Zuckerberg al cattivo di Gotham City o agitare lo spauracchio della manipolazione capitalistica crea una confusione che genera l’effetto opposto a ciò che serve davvero per renderla più sicura e giusta: che i miliardi di persone che la usano, bambini e adulti, sappiano farlo senza cagionare danni e difendendosi con efficacia.
Tra chi crea confusione c’è, a mio avviso, il bielorusso Evgenij Morozov, che vive negli Usa e che definisce internet “il grande inganno”. Morozov sostiene che “siamo autorizzati a odiare la Silicon Valley” perché “i ragazzi che vi lavorano” hanno presentano le loro compagnie “come imprese nobili umanitaristi, ma sono “peggio di Wall Street”, e teme che internet contenga “i semi della depoliticizzazione e quindi della dedemocratizzazione”.
Anche i giornalisti fanno la loro parte. A Morozov, che avrebbe “una profonda consapevolezza delle dinamiche attraverso le quali i Paesi e le corporation del digitale hanno letteralmente plasmato la rete a proprio uso e consumo”, una rivista italiana pone già erroneamente la domanda. Gli chiede: “Di fronte alla sfida dell’Internet of Things – che aumenterà in modo esponenziale la quantità di nostri dati in mano alle aziende ‘della Silicon Valley’ – qualcuno dice che la soluzione per tutelare la nostra privacy e la democrazia sia fermare questa forma di capitalismo, rompendo il monopolio in mano a poche aziende tecnologiche…”. Innanzitutto, si tratterebbe di un oligopolio, ma più grave ancora è non sapere di che cosa si parla: a parte il monitoraggio sanitario o quando a Silicon Valley sapranno che ho aperto le tapparelle o comprato un mucchio di gelato perché avrò scelto di mettere la mia casa in rete, quando si parla di IoT si parla di industria. Si parla di filiere della fornitura, catene della logistica, pezzi di macchine, sensori che garantiscono la sicurezza nei porti, nelle miniere, nelle fabbriche, nelle ferrovie – e magari ci fosse stata una rete IoT sul ponte Morandi.
“Ciò che manca“, dice Morozov, è una “lettura teorica e politica della Silicon Valley come parte integrante del capitalismo contemporaneo”: come se qualcuno avesse mai pensato che la Silicon Valley non sia parte del sistema economico occidentale, che è capitalistico. Forse si era illuso un altro guru, Jaron Lanier, nonostante egli sia un vero esperto d’informatica che lavora nella molto capitalistica Microsoft e ho sentito parlare di persona. La profilazione degli utenti, dice, darebbe luogo a “un capitalismo digitale che si fonda sulla manipolazione delle coscienze delle persone attraverso l’uso dei dati che forniamo spontaneamente per stare in rete“. “Aziende come Google e Facebook sono nate [… dicendo] di voler costruire un mondo più democratico, ma erano guidate da imprenditori e gli imprenditori fanno profitti”.
Lanier ci dice l’ovvio: che viviamo in una società capitalistica e che sappiamo di fornire i nostri dati in cambio di un servizio. Il problema è che lui, che diversamente dai comuni mortali può permettersi di presentarsi alle conferenze in ciabatte e maglietta scollata, lo dice suggerendo scenari da 1984, un messaggio che arriva alla pancia, ma distorce il problema.
A un incontro su “L’età del populismo“ in un’importante università italiana, con qualche sfumatura, i professori sul palco hanno attribuito l’insorgere del fenomeno a “internet” e “alla tecnologia”, usando i termini come sinonimi di “social media” e mettendo in secondo piano le spiegazioni storiche e sociologiche.
Poi c’è “l’algoritmo”, al singolare, quasi fosse un mostro che prende vita negli armadi dei data center. È un fatto che si possono scrivere algoritmi che diano risultati discriminanti o fuorvianti, come possono farlo anche i software d’intelligenza artificiale (Ai) “cattivi”. Tuttavia, fin quando l’Ai cattiva non avrà preso le redini del mondo, gli algoritmi possono altrettanto essere riformulati e monitorati – sapendo, in ogni caso, che chi vorrà profittarne in maniera non etica non si tirerà certo indietro perché esiste un Gdpr in Europa o in California o qualche altra legge sulla privacy nei paesi occidentali: gli hacker di Stato insegnano.
La confusione che discorsi di questo tipo contribuiscono a creare distoglie l’attenzione da una delle importanti questioni riguardanti internet: a chi spetta e se spetta a qualcuno, controllare, monitorare o legiferare a livello nazionale e internazionale sui nuovi modelli di business e sui contenuti delle imprese che nascono su internet. Al Congresso Usa a fine 2019 a Facebook è stato chiesto di bloccare la “pubblicazione di bugie”, mentre non si contano nel mondo i giornali e le tv che propinano giorno dopo giorno notizie apertamente false o tutt’altro che obiettive, ma che sono tollerati perché nessuno è obbligato a comprarli o guardarli. Pur considerando la dimensione del fenomeno Facebook, resta che nessuno è obbligato a “starci“.
Se i social media diventassero editori, il problema delle bugie e della disinformazione continuerebbe a porsi perché la parte più potente avrebbe meno contrappesi (come nell’editoria) e ci sarebbe sempre una parte politica insoddisfatta. Fatti salvi i casi ovvi, come quelli relativi a terrorismo, pedopornografia, bullismo, istigazione all’odio, alla violenza e simili, nel mio piccolo, non vorrei che fosse lo staff di Twitter o di Facebook o di Google (da Silicon Valley poi!) a decidere che cosa posso leggere o vedere.
Anche ai regimi autoritari piacciono i mezzi di comunicazione che sanno sfruttare bene, ma questa non è una lotta nuova per i cittadini e i coraggiosi che difendono la democrazia. I regimi autoritari o repressivi, confessionali o meno, il governo russo e quello cinese, tra un progetto di hacking e l’altro, probabilmente se la ridono del fatto che l’Occidente non riesca a venire a patti con la potenza della sua stessa tecnologia e dei suoi nuovi tycoon.
Diversamente dall’Europa, loro le Silicon Valley e i social media li hanno: WeChat, la piattaforma di social media cinese, ha un miliardo di utenti mensili (Facebook ne ha 2 di cui l’85% fuori dagli Usa) e TikTok ha conquistato 500 milioni di utenti in 3 anni in 155 paesi.
I regimi antidemocratici inoltre conoscono bene la potenza di internet e, in particolare, dei social media: la rete è bloccata da quasi 6 mesi nel Kashmir, dove la popolazione è a maggioranza islamica e non indù – il periodo più lungo da parte di un governo eletto, quello indiano di Narendra Modi. Lo chiamano l’”Internet Express”, il treno che chi se lo può permettere prende per 150 o 200 km andata e altrettanti di ritorno in giornata per poter usare internet.
Il coronavirus ora sta dando un nuovo ruolo a internet: quello dello strumento che eviterà che l’economia e la società si fermino del tutto nelle zone epicentro del problema. Le scuole propongono di continuare lo studio in remoto, mentre le aziende che chiedono a certi dipendenti di lavorare da casa sono sparse per il mondo.
Inoltre, entrando nei suoi prossimi 50 anni, internet non sarà più di chi fatica a digerire la transizione a un mondo digitale, ma di quelli che vi nascono – come la popolazione africana che ha un’età media di 19,5 anni, rispetto ai 42,5 della Ue o i 39,4 degli Usa.
“Internet”, “social media”, “piattaforme”, “la tecnologia” e “l’algoritmo” non sono sinonimi. Mettendo tanti aspetti complessi in un unico calderone si allontana il pubblico dall’imprescindibile dibattito e azione verso l’unico vero strumento che nei cinque continenti le persone, adulti e bambini, hanno per difendersi dai comportamenti manipolatori, discriminatori, non etici e talvolta letali sul web: esserne istruite.