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A proposito di infrastrutture…. critiche

“Le infrastrutture critiche sono quegli elementi la cui perdita o compromissione può avere effetti rilevanti cagionando danni alla disponibilità o all’integrità di servizi essenziali con gravi conseguenze economiche e sociali o perdite di vite“. È così che il Parlamento del Regno Unito definisce le infrastrutture critiche, tra le quali include certe reti delle telecomunicazioni “per l’importanza che hanno nella vita quotidiana e per le conseguenze che comporterebbe la loro mancata disponibilità”.

La notizia che il governo cinese starebbe considerando una fusione tra la seconda e la terza società della telefonia mobile cinese non può non riportare l’attenzione sulle infrastrutture della telefonia wireless e in particolare su quelle della prossima generazione, le reti 5G. (Unicom , Telecom e China Mobile sono quotate a Hong Kong, ma controllate dal governo, le prime due avrebbero insieme 580 millioni di utenti, China Mobile ne ha 900).

Se ne parla da tempo, perché Pechino tira fuori ora il dossier? E perché ci deve interessare?

In breve sul primo punto: perché Unicom e Telecom fuse avranno più capacità di investire in infrastruttura 5G – tanto più dopo la notizia di ieri, che anche l’ultimo dei grandi operatori americani, AT&T dopo Verizon e Sprint, ha annunciato che per motivi di sicurezza non utilizzerà materiale cinese per le sue reti 5G, ma solo dei fornitori Ericsson, Nokia e Samsung. Ciò penalizza molto Huawei che resta comunque il primo produttore di tecnologia 5G al mondo.

A Brooklyn, all'NYU si è tenuta la prima conferenza mondiale sul 5G http://www.ilsole24ore.com/art/tecnologie/2014-05-30/la-sfida-5g-e-questione-reti-millimetriche--150416.shtml?uuid=ABP1iRMB&fromSearch

A Brooklyn, all’NYU si è tenuta la prima conferenza mondiale sul 5G ispirata dal Prof. Ted Rappaport http://www.ilsole24ore.com/art/tecnologie/2014-05-30/la-sfida-5g-e-questione-reti-millimetriche–150416.shtml?uuid=ABP1iRMB&fromSearch

Anche così, valuta la società di consulenza Deloitte in un recente studio, “la Cina e altri paesi potrebbero stare creando uno tsunami del 5G rendendo agli altri impossibile di raggiungerli”.

Sovrapponendo ciò all’effetto “dati-reti”, come lo chiama The Economist, secondo cui stare all’avanguardia nei nuovi mercati che si creeranno significherà più utenti che genereranno più dati, il che a sua volta aiuterà a migliorare i servizi e ad avere più utenti. “I paesi che adotteranno prima il 5G avranno prevedibilmente vantaggi sproporzionati sul piano macroeconomico rispetto a quelli che arriveranno più tardi”, scrive Deloitte.

Ed ecco perché ci dovrebbe interessare. Lo “tsunami” è costituito, per esempio, dai $24 miliardi che la Cina ha speso in più rispetto agli Usa negli ultimi tre anni per tecnologie 5G.

Semplificando molto: in Cina, nella piramide di comando “paternalistica” dove, come spiega il titolare del più grande fondo privato al mondo, Ray Dalio, Xi Jinping decide dall’alto ciò che è bene per il paese come se si trattasse della sua famiglia, finanziare generosamente e promuovere le reti 5G non incontra ostacoli.

Negli Usa, a parte un tweet in cui Donald Trump suggeriva di costruirle come infrastruttura federale, l’iniziativa dell’innovazione e dell’implementazione è tutta lasciata ai privati.

In Europa il panorama è molto differente perché gli stakeholder di cui tenere conto sono molteplici. Intanto, anche se variano da paese a paese, le normative contro l’inquinamento elettromagnetico sono molto più severe nella Ue che altrove nel mondo e ciò è un bene per i cittadini europei; mentre è un dato tecnico che le reti 5G richiedono un dispiegamento molto più denso di antenne sebbene ben più piccole. E si sa, la quadratura del cerchio tra salute e progresso non si trova dalla sera al mattino.

Nonostante il Mercato unico digitale, gli investimenti inter-paese, che sarebbero più efficaci, non sono semplici. In più, il numero degli operatori nella Ue è alto – giustamente a vantaggio dei consumatori (vedasi ora Illiad) – ma operatori piccoli fanno investimenti piccoli.

Stando a una lettera citata dall’FT dei boss di Deutsche Telekom, Orange, British Telecom e Telefónica del 2017, “altre regioni del mondo hanno superato gli investimenti [europei] nelle reti digitali di due volte. Ciò dovrebbe essere motivo di allarme e azione, in particolare in un contesto di forte concorrenza globale e di rapido cambiamento tecnologico”.

La commissaria Ue Margrethe Vestager confuta che le minori dimensioni degli operatori, sia per geografia sia per numero, diluisca gli investimenti in una tecnologia su cui Asia e America del Nord stanno scommettendo pesantemente.

Nel cielo di Berlino Mitte, una settimana fa girava una mongolfiera che riprendeva la città a 360°. Grazie alla prima rete 5G in una città europea, durante la fiera della tecnologia Ifa le immagini arrivavano perfettamente nitide e senza interruzione nella zona espositiva a 12 km di distanza con una latenza (ritardo) trascurabile (Deutsche Telekom). Sempre in Germania ho visto una gru (con tutti i rischi che una gru comporta) manovrata in tempo reale con precisione da una postazione a più di 300 km di distanza (Vodafone).

E nella Penisola? Con visione di futuro, San Marino  con Telecom Italia ha installato la prima rete 5G in un paese e la sta testando in un vero e proprio laboratorio a cielo aperto per servire i servizi della città intelligente, il turismo, la pubblica sicurezza e l’industria (rimando a un altro articolo). Ma San Marino non è Italia.

La torta non è solo molto appetibile, ma come detto, ha ricadute macroeconomiche: uno studio IHS prevede che a livello mondiale i processi che contribuiranno alla costruzione, al funzionamento, alla commercializzazione e alla manutenzione delle reti 5G (la catena del valore) richiederanno in media €170 miliardi di investimenti l’anno a fronte di vantaggi economici in vent’anni di circa €3000 miliardi, sì, 3.000, e posti di lavoro 22 milioni.

Quando si parla di 5G sarebbe utile che chi deve decidere pensasse al mondo produttivo: a quello che si sta materializzando, altrove, e ai posti di lavoro – reali – che si stanno creando, altrove.